Diario in stile di Lahiri Parte 4

 Quando traduco, mi sento triste e felice, tutte e due, allo stesso tempo. Mi sento triste perché quello che faccio, quello che creo, non sarà mai finito. Il testo che scelgo ogni volta è sempre un testo che non riuscirò mai a ricreare perfettamente in inglese, la mia lingua materna. L'idea che uno scrittore vuole trasmettere ai lettori non sarà trasmesso nella mia versione al cento per cento, perché le mie incapacità, le mie debolezze, non me lasciano capire il messaggio, notare tutte le sfumature, i metodi artistici, i simboli, il ritmo e la musicalità che l'autore ha intenzionalmente introdotto nel suo testo, E anche se riesco a vedere tutti questi bei elementi, non sono capace di catturarli nello stesso modo. La mia capacità di scrivere bene, artisticamente, manca. Manca una raffinazione. Non posso accettare che quello che scrivo io è cattivo, brutto, che non valga la pena di esser letto da un altro umano.

Però mi sento anche felice e forte. Mi sento così perché so che col tempo migliorerò. Cerco le parole giuste, ricerco il migliore modo di esprimere qualcosa. Non mi arrendo facilmente. Le stesse difficoltà che mi fanno male, che mi tolgono la fiducia in me stessa, sono quelle che mi spingono di superarle e imparare ancora di più. Non posso restare finché non impari tutta la grammatica, il vocabolario, le espressioni idiomatiche. Voglio sembrare Anna Goldstein, la traduttrice di Elena Ferrante. 

Come ha fatto lei per avere successo? 


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